Ancora violenza in Colombia: uccisa una giornalista indigena

Nonostante i tentativi di portare avanti il processo di pace in Colombia, il Paese non accenna a fermare la spirale di violenza che, ormai, ha abituato la popolazione a vivere nella precarietà e nell'incertezza. E questa spirale si è avvolta attorno ad una giovane giornalista uccisa dalle Forze Armate dello Stato, proprio pochi giorni, durante una repressione contro le popolazioni indigene.

13 ottobre 2017 - La violenza in Colombia non si ferma, e la sua ferocia ha colpito una giovane giornalista, uccisa pochi giorni fa per mano dell'ESMED (Escuadron Movil Antidisturbios), mentre procedevano a sloggiare gruppi di manifestanti indigeni nella zona di Cauca, i quali erano lì per reclamare i loro territori. I movimenti indigeni organizzati per il recupero delle loro terre ancestrali hanno destato il forte disappunto dei proprietari territeri, i quali hanno fatto appello ai mezzi repressivi dello Stato. Le forze armate, entrate con forza nell'area, hanno provocato l'uccisione di Efigenia Vasquez Astudillo, una giornalista indigena di 37 anni che lavorava per la radio Renacer Coconuco, e che si trovava sul posto, in prima linea come sempre per informare la popolazione sulle notizie della sua regione. Oltre a questo omicidio, si registrano anche tre feriti, di cui uno grave.

La Colombia ha recentemente intrapreso importanti passi avanti per porre fine a uno dei conflitti più lunghi e brutali del mondo. "Sono passati pochi mesi dalla firma dello storico accordo di pace tra governo colombiano e FARC", si legge in un documento della rete In Difesa Di, "un accordo che – con l’eventuale conclusione positiva del negoziato con l’ELN – potrebbe aprire la strada a un futuro di pace per il popolo colombiano. Questa è la narrazione ufficiale, ma la realtà quotidiana parla d’altro: l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani in Colombia ha dichiarato che sono 64 i difensori e difensore per i diritti umani assassinati nel 2016. L’Istituto Internazionale per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz) parla invece di 117 omicidi, e di 350 minacce, 46 attentati e 5 casi di sparizioni forzate. Una drammatica escalation di violenza, in un Paese già considerato tra i più pericolosi del mondo per chi si batte per la giustizia sociale e ambientale."

Il conflitto armato ha causato la morte di più di 220.000 persone – di cui il 70% si ritiene fossero civili – dal suo inizio nel 1964, e ha costretto quasi 6 milioni di colombiani ad abbandonare le proprie abitazioni – il tasso più alto di sfollati al mondo dopo la Siria, secondo le Nazioni Unite (ONU). Anche se questo capitolo della storia colombiana sembra potersi chiudere presto, seri interrogativi rimangono circa la realizzazione dell’accordo, definito da molti critici come un’amnistia mascherata garantita ai responsabili delle violenze. Inoltre, ad ottobre del 2016 in un referendum popolare, il NO ha prevalso e messo un'importante battuta d'arresto al processo di pace.

Da più fonti emerge che la fine formale del conflitto armato tra Stato colombiano e guerriglia delle FARC non ha interrotto in alcun modo la spirale di violenza innescata dalle strutture neo-paramilitari presenti nel Paese. Al contrario, ha favorito l’avanzata di questi gruppi nelle zone “lasciate libere” dalle FARC.

Inoltre negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli attacchi nei confronti delle organizzazioni internazionali che accompagnano sul campo comunità rurali, leader sociali e difensori e difensore dei diritti umani. Alle minacce dirette da parte di gruppi neoparamilitari, spesso si aggiungono episodi di diffamazione e stigmatizzazione da parte delle Forze Armate, per screditare il loro lavoro.

(di Gabriel Baudet)