L'importanza di riconoscersi (Macerata, 3 febbraio 2018)

Lo scorso 3 febbraio, un uomo ha sparato contro sei persone, a Macerata. Le vittime sono uomini e donne africani. Ma il binomio "victims and victimizers" va fermato, aprendo uno spazio alla giustizia restaurativa che si basa sul reciproco riconoscimento come esseri umani. Ognuno con la sua storia, le sue vicende, la sua vita. Perchè è necessaria una più profonda comprensione del significato del lutto e della violenza per arrivare a nuove forme di solidarietà e giustizia globale.

6 febbraio 2018 - Vogliamo scrivere e pronunciare i nomi delle persone ferite a Macerata lo scorso 3 febbraio:

Mahamadou Toure, 28enne originario del Mali, Jennifer Otioto, nigeriana di 29 anni, Gideon Azeke, anche lui della Nigeria e di 26 anni d’età; Wilson Kofi, del Ghana, 20 anni;  Festus Omagbon, 32enne nigeriano, Omar Fadera, 23 anni del Gambia. E poi certo c’é Luca Traini, colpevole degli spari, fascista con evidente disagio psichico e sociale, vittima in un certo senso pure lui. E Pamela Mastropietro, ragazza di appena 19 anni,  con problemi di dipendenza e morta in circostanze da chiarire ma in una vicenda orrenda che apparentemente è all’origine della reazione assurda e indiscriminata di Traini.

Storie e vicende: vite. Ciascuno di questi nomi, una vita. Dire che sono tutti vittime, non significa mettere tutti sullo stesso piano e diminuire le colpe di chi ha fatto violenza; significa capire che solo interrompendo la spirale che si basa sull’adagio “occhio per occhio…”, solo superando il binomio vittima/carnefice (in inglese: victims and victimizers; in spagnolo: víctimas y victimarios) e comprendendo che spesso anche il carnefice è stato, prima, vittima di una violenza diversa o analoga, e quindi solo aprendo uno spazio alla giustizia restaurativa, una giustizia che va oltre gli aspetti strettamente giuridici ma si basa sul reciproco riconoscimento come esseri umani, si può fermare la guerra e ricostruire la convivenza civile. Il piano processuale dovrà chiarire le responsabilità e assegnare una pena. In una comunità che cerca di mantenere la coesione e convivenza dovrebbe cercare di far incontrare le persone che si sono trovate nei panni ingombranti dell’offeso e del ‘mostro’, e farli guardare negli occhi per scoprirsi ugualmente umani.

Abbiamo voluto scrivere dapprima i nomi dei sei feriti dai colpi di pistola di Luca Traini, perché quei nomi sono stati affastellati dalla stampa con un generico: “sei migranti feriti”. E questo è già un problema di fondo, perché usando un’etichetta complessiva e assai generica si schiacciano le individualità, si favoriscono gli stereotipi.  

Nel suo libro più appassionato e provocatorio, “Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo”, scritto dopo l’11 settembre di New York, la filosofa e pioniera dei gender studies Judith Butler riflette sulle conseguenze che derivano dal rafforzarsi delle culture per le quali certi gruppi sono umanizzati e altri disumanizzati, in certe situazioni di alcune vittime abbiamo fotografie e nomi, interviste ai familiari e autobiografie, mentre altre sono meno degne di lutto. La filosofa parla della distribuzione geopolitica della vulnerabilità, trovando nello squilibrio del dolore e del lutto uno dei grandi fattori di ingiustizia della nostra era. Per questo vogliamo dare dignità e almeno un nome alle persone ferite dalla follia razzista di Macerata. Butler, come si diceva in un’intervista al Corriere della sera del 22/9/2016, propone un'etica non violenta, fondata sulla consapevolezza della vulnerabilità e precarietà della vita umana, e ci mostra come una più profonda comprensione del significato del lutto e della violenza possa condurci verso nuove forme di solidarietà e giustizia globale. «Credo che la responsabilità verso gli altri sia maggiore quando diventiamo a nostra volta vittime della violenza altrui: è una situazione che ci obbliga a chiederci come reagire alle ferite. Solo la preoccupazione per la comune vulnerabilità umana può impegnare i singoli a proteggere gli altri dalla sofferenza».

Piero Confalonieri