“Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2016”, di Caritas e ANCI

21 novembre 2016 - Fresco di stampa è il “Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2016”, curato da Caritas e ANCI. Insieme al “Dossier statistico immigrazione 2016” di IDOS e al “XXII Rapporto ISMU sulle migrazioni” (che verrà presentato a Milano il 1 dicembre), offrono complessivamente una base di informazione quantitativa molto precisa  e moltissimi approfondimenti qualitativi sui fenomeni migratori che hanno interessato il nostro paese e tutta l’Europa nell’ultimo anno. Un anno particolarmente drammatico. L’arrivo di oltre un milione di profughi nel solo 2015, ha messo definitivamente in crisi ogni approccio unitario della UE riguardo alla gestione di questi flussi, da cui le diverse politiche tra gli stati membri (dall’accoglienza dei profughi siriani in Germania all’innalzamento di un muro in Ungheria, tanto per fare due esempi antitetici) e una sostanziale impasse per tutti. Una situazione che mantiene ancora bloccate nel freddo di questo incipiente inverno circa diecimila persone lungo la rotta balcanica, come ha dichiarato la ministro degli interni della Slovenia, intere famiglie che non sono ospitate in alcun centro di raccolta e che vagano ricacciate tra i vari Paesi alla disperata ricerca di una “via di fuga” che le porti verso la Germania. Proprio sulla rotta balcanica si sofferma approfonditamente il “Rapporto sulla protezione internazionale 2016”, che come dal titolo si occupa prevalentemente dei profughi e richiedenti protezione internazionale, anche se la distinzione tra migranti economici e profughi/richiedenti asilo appare capziosa ed è chiaro come nessuna delle categorie giuridiche esistenti sia adeguata a comprendere la realtà e quindi orientare le risposte pubbliche. Secondo l’agenzia FRONTEX, nel 2015 sono transitate in quel tragitto terrestre 764.038 persone, un numero sedici volte maggiore del 2014, e questo flusso è proseguito fino alla sostanziale chiusura di tale percorso a marzo 2016 con il blocco delle frontiere prima austriache e poi a catena, di Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia e alla firma dell’accordo UE-Turchia, frutto di un negoziato molto teso in cui Il governo turco ha alzato la posta e si è assicurato il raddoppio delle risorse messe a disposizione dall’UE per l’accoglienza dei richiedenti asilo. Sulla falsariga dell’accordo con la Turchia, accordo che in parte spiega il mutismo dell’Unione Europea e del Parlamento europeo sul giro di vite imposto a tutto il paese anatolico da Erdogan dopo il fallito golpe, è la proposta del governo italiano in sede comunitaria per un analogo accordo con alcuni governi africani, che monetizza un loro ruolo di gestori –in subappalto- dei flussi migratori direttamente in terra africana, esternalizzando le frontiere europee.  La Turchia, la Libia e il Niger sono in questo senso identificati come i principali luoghi di transito e quindi interlocutori. Gli ultimi due paesi, sono i punti di ‘imbuto’ della rotta mediterranea centrale, che nel 2015 ha visto un decremento di passaggi rispetto agli anni precedenti, ma lungo la quale comunque sono transitate quasi 140mila persone e continua ad essere quella più pericolosa, con almeno 3mila morti annegati.

Ma permane ad oggi l’incoerenza, l’applicazione differenziata – tra ciascuno dei paesi membri UE e all’interno di questi, tra diverse zone - delle norme esistenti. Si legge nel rapporto: «In tanta confusione e indeterminatezza, a pagarne le spese sono i migranti a cui talvolta, non è garantita la possibilità di accedere alla richiesta di asilo creando quella che qualcuno ha definito la fabbrica della "clandestinità di Stato" che produce centinaia di nuovi fantasmi, persone in carne ed ossa che rischiano il rimpatrio o la detenzione nei CIE, o nel miglior e dei casi, un soggiorno in un limbo infernale di sfruttamento e ricattabilità. (…) Persone disorientate che si rivolgono alle organizzazioni umanitarie» (…) persone lasciate al loro destino divenendo «facilmente oggetto di attenzioni da parte della criminalità che non di rado utilizza i canali dell’asilo per far proliferare i propri traffici. Questo è accaduto e purtroppo ancora accade con le vittime di tratta per sfruttamento sessuale e sta accadendo anche sul fronte dello sfruttamento lavorativo, dove almeno metà dei lavoratori sfruttati ha un permesso umanitario o addirittura una protezione sussidiaria.»

Molto interessanti dunque le articolate “raccomandazioni” che sono corollario al volume menzionato, e che –partendo dalla necessità di garantire sempre un approccio di tutela dei diritti umani- riescono però ad entrare nel merito con proposte concrete e attuabili al fine di migliorare e unificare le normative dando vita ad un sistema unico di accoglienza, coerente e con parametri omogenei a livello nazionale.

Il tempo delle scelte è improrogabile; la dimensione quantitativa è chiara e di dominio pubblico; delle proposte importati da parte della società civile ci sono. Si tratta ora di esigere alla politica che agisca con coerenza e visione di lungo periodo.