Referendum in Mali, un Paese a pezzi

Il Mali continua ad essere messo a ferro e fuoco da una molteplicità di situazioni, spaccature e tensioni a vari livelli, mentre lo Stato perde ogni spessore e solidità. Il Governo ha indetto un referendum per cambiare la Costituzione, ma continua ad essere miope sui veri problemi di un Paese estremamente povero e carico di sfollati e rifugiati. E costantemente dilaniato da attentati.

20 giugno 2017 - Il Presidente della Repubblica del Mali e il suo governo, hanno indetto un referendum per l’approvazione di modifiche alla Costituzione dello Stato. Le votazioni si svolgeranno il 9 luglio, in un paese dilaniato da un conflitto che dal 2012 contrappone, nella estrema e miope semplificazione europea, jihadisti contro tutti i ‘buoni’ (governo centrale, forze militari francesi, missione di pacificazione Nazioni Unite, milizie locali). Nella realtà, il Paese è percorso da molteplici e profonde spaccature e tensioni a vari livelli, nello sgretolarsi dell’istituzionalità statale. Contro il progetto di revisione della Costituzione, si stanno mobilitando vari gruppi politici dell’opposizione e i sindacati, che denunciano che questa modifica “andrebbe a conferire poteri eccessivi e monarchici al Presidente della Repubblica”. Ma sia il governo che l’opposizione sembrano perdere di vista i problemi veri che affronta la popolazione: i problemi strutturali di una nazione con alti indici di povertà, si sommano all’estinguersi delle entrate per il turismo che –in certi anni e in certe zone- generavano un po’ di liquidità; il gran numero di sfollati e rifugiati riversatisi nel centro del Paese e in Mauritani e Niger, non hanno generato quel flusso di risorse richiesto dal Mali e dalle agenzie umanitarie per farvi fronte; nonostante la firma di accordi di pace, in questi ultimi due mesi è evidente il ritmo incalzante e crescente di attacchi, imboscate e incursioni da parte di vari gruppi ribelli sia in Mali che sconfinando dal Mali verso il Niger e il Burkina Faso. L’episodio più ‘coperto’ dalla stampa internazionale è l’assalto contro un resort turistico appena fuori Bamako avvenuto il 18 giugno, ma che si somma all’imboscata avvenuta due giorni prima nel villaggio di Bintagoungou (a 80 km da Tomboctou e che ha significato 5 soldati dell’esercito maliano uccisi e 8 feriti), l’uccisione di un altro soldato maliano saltato su una mina nella zona di Asongo, nella regione di Gao, e l’incendio lo stesso giorno di un ufficio doganale e della gendarmeria a Hombori. L’8 giugno c’è stato un attacco contro una base delle truppe inter-africane che compongo no la Missione delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA), con 4 caschi blu morti e 8 feriti; a questo proposito si rileva che, con un bilancio di 70 caschi blu uccisi da luglio 2013 ad oggi, questa è la missione di pacificazione più costosa in termini di vite umane dopo la Somalia del 1993-1995. Una missione che il 30 giugno si sarebbe conclusa, ma è stata rinnovata per un altro anno. Un susseguirsi di scaramucce e scontri hanno costellato questi ultimi mesi, ‘celebrando’ in qualche modo i due anni della firma degli accordi di pace, e sancendo il loro sostanziale svuotamento. L’attacco di Bamako di domenica 18 giugno, avvenuto in pieno Ramadan, fa temere che neppure il mese sacro dei musulmani possa frenare l’offensiva dei gruppi armati, in concorrenza tra loro, ma decisi a mettere inginocchio il Paese. Una classica situazione dove varie milizie e ‘signori della guerra’ mescolano abilmente interessi di clan, finanziamenti esterni, richiami alla guerra di religione e gestione di traffici criminali, per assicurare l’instabilità dell’intera regione.

(Piero Confalonieri)

 

Foto | @United Nations via Flickr