Nicaragua: un triste anniversario, senza vittorie da celebrare

Appena 39 anni fa, in Nicaragua si festeggiava la fine della dittatura. Oggi però non c'è molto da festeggiare: il Paese è profondamente spaccato, e dall'inizio dei conflitti (19 aprile scorso) si parla di oltre 400 morti, migliaia di feriti e centinaia di arresti e persone "scomparse". I tentativi di dialogo e mediazione, al momento, non sono serviti. La situazione è sempre più drammatica, e sempre più vicina ad una possibile guerra civile.

29 luglio 2018 - Il 19 luglio 1979, dopo molti mesi di una crescente ribellione e repressione, la popolazione nicaraguense acclamava i gruppi di guerriglieri ‘sandinisti’ (così chiamati perché si rifacevano alle gesta di Augusto César Sandino, che nei primi del Novecento combattè contro i soldati statunitensi) entrati nella capitale Managua chiudendo una fase durata quarant’anni di dittatura paranoica e ‘dinastica’, passata cioè di padre in figlio all’interno della famiglia Somoza.

L’anniversario numero 39, quest’anno, non poteva che essere più triste: il Paese è profondamente spaccato, con una rivolta che attraversa tutti i ceti sociali e il territorio nazionale contro il governo e la repressione, da un lato, e i militanti del partito sandinista al potere che parlano di un tentativo di colpo di stato finanziato dall’esterno.

Sono circa 400 (448 secondo l’entità di diritti umani nicaraguense ANPDH) i morti dall’inizio delle proteste, il 19 aprile; più di 2800 i feriti e centinaia le persone arrestate. Secondo il centro per i diritti umani CENIDH, sono 718 le persone ‘scomparse’ dopo l’arresto o il prelievo da parte di gruppi armati irregolari. Purtroppo i tentativi di dialogo e mediazione sono al momento falliti, le ispezioni della Comisión Interamericana de Derechos Humanos e dell’ufficio diritti umani dell’ONU non stanno riducendo l’intensità degli scontri e si spengono le speranze di un negoziato tra le parti. Inutili anche, apparentemente, i tanti appelli per fermare la repressione, tra cui quello di noti intellettuali progressisti dell’America latina che hanno duramente preso posizione affermando che “non c’è peggior ladrocinio che defraudare la speranza dei popoli; non c’è peggior saccheggio che quello diretto a depredare le energie ribelli per un mondo giusto”.

Nessuno può parlare oggi di vittoria; nulla vi è da celebrare quando ogni famiglia nicaraguense ha un figlio ferito o ucciso o conoscenti scomparsi: va ricordato che in un piccolo Paese con una popolazione di 6 milioni di persone e una struttura sociale basata su legami di famiglia allargata, l’impatto di questi numeri è altissimo.  Le conseguenze economiche dell’insicurezza, del “coprifuoco-di-fatto” (la sera è altamente raccomandato di non uscire di casa ed anzi, asserragliarsi per proteggersi da gruppi armati irregolari che imperversano seminando il panico), dei blocchi stradali, è già ora pesante in un Paese privo di significative risorse naturali e con un’economia fragile. L’instabilità in Nicaragua, se protratta nel tempo e se fuori controllo, avrà un effetto terribile in tutto il Centroamerica, ‘cordone ombelicale’ del continente e già nella mira dei potenti attori dell’economia criminale (narcotraffico, saccheggio di risorse naturali, tratta di persone).

Nessuna vittoria da celebrare, quest’anno, solo lutti, paura e la preoccupazione che una guerra civile sia alle porte.  Scongiurarla dovrebbe essere al centro degli sforzi della diplomazia, della politica, delle organizzazioni regionali e delle forze politiche nicaraguensi.