Lo “sviluppo” che distrugge i pastori: il caso SAGCOT in Tanzania

Le prime vittime del "land grabbing", soprattutto in Africa, sono i pastori. Espropriazioni, allontanamenti forzati, case bruciate, "multe", oltre all'imposizione di metodi e modelli che mettono al primo posto il profitto in nome dell'agroindustria e di una nuova "rivoluzione verde": queste sono le violazioni che progetti come il SAGCOT della New Alliance for Food Security and Nutrition provocano ai danni dei diritti umani di pastori e contadini in Tanzania. Terra Nuova, CELEP e HOTL lo denunciano in un policy brief appena pubblicato.

12 dicembre 2017 - La parola “land grabbing” riferita ai Paesi africani e al furto delle loro terre ad uso speculativo è entrata nel nostro vocabolario da almeno dieci anni, ma pochi sanno che le prime vittime di queste pratiche sono i pastori, le cui terre utilizzate per il pascolo sono ritenute “vuote”, cioè inutilizzate perché non hanno una proprietà “formale”. Si tratta di  terre comuni utilizzate in base agli usi e alle consuetudini e per questo, malgrado siano appartenute alle comunità per secoli, vengono considerate libere di essere acquisite o sfruttate in altri modi, ritenuti più efficienti. La conseguenza è che i pastori vedono ristrette le loro aree di pascolo o vengono espulsi per andare altrove.
Pochi sanno, inoltre, che i terreni da pascolo costituiscono  tra uno e due terzi della superficie terrestre ed i pastori hanno da sempre rappresentato una fonte di sicurezza alimentare e di nutrizione per le popolazioni locali, garantendo il riprodursi della biodiversità ed il mantenimento degli ecosistemi. Con il loro lavoro estremamente flessibile,  incessante e basato su una conoscenza millimetrica del territorio, essi riproducono un modello molto sostenibile ed adatto a mitigare, ma anche a reagire verso gli impatti del  cambiamento climatico. Nei paesi del Sud del mondo, questo modello gioca ancora un ruolo fondamentale nell’economia, soddisfacendo bisogni alimentari (come la produzione di latte, formaggi o carne), e fornendo prodotti non alimentari (lana, artigianato) ed entrate economiche.

Tutto questo è però messo alla prova da mille difficoltà quotidiane, da politiche inadeguate, da grossi  investimenti ed interessi economici legati all’agroindustria, da pregiudizi che vedono il modello come arcaico e superato. I pastori sono ostacolati nell’accesso alle terre e nella loro gestione,  la loro attività viene vista come qualcosa di marginale, poco importante rispetto agli interessi di conservazione ambientale o di investimento produttivo su larga scala. Le regole sanitarie che vengono imposte per la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti sono spesso un ostacolo, perché uniformate agli standard della grande distribuzione alle quali difficilmente una produzione artigianale e di piccola scala può adeguarsi. Gli interventi cosiddetti di sviluppo, come quelli promossi dalla Nuova Alleanza per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione[1] possono essere addirittura una minaccia anziché un aiuto per questi modelli di produzione e per le migliaia di produttori che ne dipendono. Come nel caso, emblematico, del Southern Agricultural Growth Corridor of Tanzania (SAGCOT) oggetto di un policy brief pubblicato da Terra Nuova in collaborazione con CELEP e Hands on the Land for Food Sovereignty (HOTL).

Pastoralism under Threat: Human Rights Violations in the Southern Agriculture Growth Corridor of Tanzania” analizza, con un approccio basato sui diritti umani, le violazioni ai danni dei tantissimi pastori e agricoltori di piccola scala in Tanzania, costretti a subire minacce, violenze personali, e ad abbandonare le proprie terre e le proprie tradizioni, con gravissime conseguenze dal punto di vista del diritto umano al cibo. Queste violazioni, come documentate da una vasta letteratura di studi ed analisi, sono la conseguenza dell’implementazione dei così detti corridoi “per la crescita agricola”, piani che prevedono la creazione di grosse infrastrutture al servizio di un’agricoltura industriale e di esportazione, legata ad investimenti esterni, che non vengono concertati con le popolazioni locali e molto difficilmente potranno quindi essere al loro servizio, o portare loro benefici. “Neo colonialismo” è il termine usato per questo modello estrattivista imposto dall’alto, che rischia di desertificare il vero potenziale “di sviluppo” del paese, che si trova, come da anni ci dicono le organizzazioni contadine africane appoggiate da Terra Nuova,  nell’agricoltura familiare (80% della popolazione) e sui mercati regionali. Il reportage condotto da CELEP e Terra Nuova si basa su interviste che rivelano casi di espropriazione, allontanamenti forzati, case bruciate, imposizioni di “multe” o furti di bestiame, per far sì che i pastori abbandonino le zone “riservate” al corridoio. È questa la “crescita” che devono sostenere i nostri governi? E’ giusto calpestare i diritti umani in nome di un presunto sviluppo economico?

“Gli Stati dovrebbero supportare le pratiche che rispettano i sistemi di gestione degli ecosistemi condotte dai pastori e valorizzare le loro conoscenze tradizionali”, affermano le autrici del documento appena pubblicato, “in un mondo in cui la malnutrizione è in aumento e l’obesità sta raggiungendo i numeri della fame, bisogna rimettere al centro il diritto al cibo, riconoscendo l’importanza di questo tipo di produttori nel fornire il cibo nutriente, adatto alle culture dei territori appoggiandone la commercializzazione sui mercati locali”.

Le raccomandazioni finali presentate nel policy brief chiedono ai governi della New Alliance di assicurare trasparenza e responsabilità per gli accordi che portano avanti; di bloccare i progetti che mettono a repentaglio il diritto al cibo, l’accesso alla terra e gli interessi economici a discapito delle popolazioni e dell’ambiente; di rispettare le linee guide sulla terra approvate dal CFS nel 2012 e le linee guida sui mercati territoriali.

Il documento è scaricabile qui.

 

Foto | @Ebe Daems



[1] New Alliance for Food Security and Nutrition, un’alleanza tra i Paesi membri del G8, il settore privato e 10 Paesi africani, che attraverso le PPP (Public-Private Partnerships) sta imponendo una nuova “rivoluzione verde” in Africa.